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“Un regista italiano oscuro e dimenticato ma non per questo meno interessante.”

Quante volte avremmo potuto appioppare questa definizione a diversi, validi e misconosciuti autori del nostro Paese?

Di sicuro, cari amici dei Mutzhi Mambo, è una descrizione che si adatta alla perfezione all’inclassificabile BRUNELLO RONDI, uno dei registi e sceneggiatori più sottovalutati del nostro cinema!

Quando si parla del cinema italiano del dopoguerra, quello “serio”, “importante”, si pensa subito ad autori del calibro di Roberto Rosellini, Federico Fellini o Vittorio De Sica.

Dietro a queste figure, però, c’era sempre qualcuno che lavorava con grande impegno senza però che il suo contributo venisse pienamente riconosciuto, o per motivi caratteriali dei registi o per il sistema che tendeva (e tende tuttora) a dare importanza solo a certi ruoli.

Uno di questi è il nostro Brunello Rondi che, nonostante le sue numerose collaborazioni e i suoi lavori anche da solista, è rimasto per certi aspetti sempre un po’ nell’ombra.

Eppure, in una carriera ultratrentennale, ha lavorato alla stesura di quasi 30 sceneggiature e alla direzione di oltre 10 film, oltre a libri e opere teatrali.

Fu un artista dai mille risvolti, a tutto tondo: infatti, oltre a lavorare nel mondo del cinema come sceneggiatore e regista, si cimentò anche nel teatro, nella poesia, nella musicologia, e nella filosofia.

Chiaramente a noi, in questa sede, interessa più la sua limitata produzione cinematografica che, a parte qualche (notevole) caduta di stile, dovuta più che altro alle imposizioni dei produttori e ai limiti di budget, ha sfornato alcuni titoli fondamentali della nostra filmografia.

Il suo cinema è stato sempre ostacolato dalla critica e dalla censura per la sua messa in scena della figura femminile in una veste che in quegli anni veniva considerata “erotica“ e per le sue trame spesso crude ed estreme.

C’era un certo compiacimento, è vero, nel mostrare nudità e situazioni morbose, ma in realtà l’autore, attraverso l'ostentazione del corpo femminile, voleva operare una sorta di denuncia nei confronti della società perbenista e maschilista degli anni ’60 che imponeva alla donna un ruolo subalterno e sottomesso.

Questa tematica ricorre in quasi tutte le sue opere, e in particolare in quella che oggi è considerata il suo capolavoro: “Il demonio” (1963).

Purtroppo per lui, i suoi film erano sempre un po’troppo “intellettuali” (e noiosi, diciamolo…) per gli amanti del cinema sexploitation e un po’ troppo pecorecci e di genere per chi apprezzava il cinema d’ “autore”.

Risultato: non piaceva a nessuno!

Ma per quel che riguarda il Pulp, paradossalmente sono proprio i suoi film più “infami” a garantirgli il dubbio privilegio e diritto di essere omaggiato in questo Vostro Almanacco…

Brunello Rondi nasce a Tirano, in provincia di Sondrio, nel 1924.

Fratello del critico cinematografico Gian Luigi Rondi, esordisce nel cinema come aiuto-regista e sceneggiatore, collaborando con Luigi Chiarini alla realizzazione del film “Ultimo amore” (1947).

Il punto di svolta viene segnato dall’incontro con Rossellini, con il quale collabora alla realizzazione di due pellicole: “Francesco Giullare di Dio” (1950) ed “Europa ’51” (1952).

Lavorerà anche con autori come Alessandro Blasetti, Mauro Bolognini, Vittorio De Sica, Pasquale Festa Campanile ma la sua esperienza più rilevante, però, è quella con Fellini, il quale lo prende come punto di riferimento creativo per molte delle sue opere.

Rondi, infatti, lavora col regista per un venticinquennio, dal 1954, anno in cui dirige “La strada”, fino al 1979, anno in cui realizza “La città delle donne, prestandogli la propria opera sia come aiuto che come sceneggiatore di alcuni dei suoi più celebri film, tra cui “La dolce vita” (1960), “8½” (1963), e “Satyricon” (1969).

I due diverranno grandi amici, tanto che Fellini lo chiama affettuosamente “Brunellone“; addirittura, quando il regista ha dei buchi creativi, si affida a Rondi, unico degli sceneggiatori ad essere presenza quasi fissa sul set, per dei suggerimenti che poi integra nei suoi film.

Il problema è che, per distrazione o malizia, non si sa, si approfitta un po’ del suo collaboratore: talvolta nei titoli di testa non viene neanche citato correttamente, forse anche per responsabilità dei vari produttori.

Nel 1962, dopo aver diretto alcuni cortometraggi, Brunello esordisce nella regia di un lungometraggio a soggetto, dirigendo “Una vita violenta”, tratto dall'omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, e realizzato in collaborazione con Paolo Heusch.

Ancora in gran parte di stampo neorealista, il film si segnala per la violenza e la crudezza inusuali (per l’epoca) della prima parte.

Nello stesso anno dirige un altro film cardine, “Il demonio”, uscito nel 1963.

Questa pellicola, ambientata in Lucania, racconta la storia di una ragazza che viene accusata di essere una "maciara", una strega posseduta dal demonio solo perché, a livello sessuale, è piuttosto "avanti con i tempi" per l'ambiente in cui vive.

Si tratta della denuncia a una società del sud Italia, ancora troppo arretrata dal punto di vista culturale, che arriva a condannare una ragazza e la porta all'autosuggestione fino alla follia.

La ricostruzione del clima di superstizione rurale è molto accurata, grazie anche al supporto scientifico del noto etnologo Ernesto de Martino, che lo aiuta a portare alla luce i riti e le credenze che, all’epoca, sono parte integrante della vita di quelle persone (oddio, se si considerano le varie trasmissioni di cartomanti e ciarlatani vari che tuttora impestano la TV, non pare che ci siamo poi tanto evoluti...).

A vederlo ora, risulta piuttosto lento ma mantiene un grande fascino, grazie alla fotografia in bianco e nero da urlo e alla bellissima protagonista, l’israeliana Daliah Lavi.

Inoltre influenzerà profondamente sia “L’esorcista” (la scena dell’indemoniata che cammina come un ragno, Friedkin l’ha presa di pacca qui), che “Non si sevizia un Paperino” di Lucio Fulci, per l’attenzione quasi antropologica nel descrivere le bestiali conseguenze delle retrograde usanze dei paesi del Sud Italia.

Segue, nel 1964, “Domani non siamo più qui”, un ritratto di borghesi annoiati: un po’ alla Antonioni e un po’una palla…

Come una palla è pure il successivo “Più tardi, Claire, più tardi…” (1968), un giallo Hitchcockiano mortalmente lento in cui si salva solo l’eccellente fotografia gotica.

Da qui in poi Rondi tenterà di seguire un suo percorso personale, incentrato sull'analisi di inquietanti e problematiche figure femminili; tuttavia riuscirà solo parzialmente a realizzare questo intento, lasciandosi talora trascinare da esigenze di puro spettacolo che lo inducono ad indulgere sul pruriginoso.

Del 1970 è il dramma edipico, morboso e malato, “Le tue mani sul mio corpo”, mentre due anni dopo sforna un paio di film, entrambi con protagonista la splendida Barbara Bouchet: “Valeria dentro e fuori”, un pesissimo dramma ambientato in un ospedale psichiatrico, e il decamerotico “Racconti proibiti... di niente vestiti”, nulla di che ma nettamente superiore alla media di questo genere.

Nel 1973 gira “Ingrid sulla strada”, una cruda storia di prostituzione, lentissima e sconclusionata ma arricchita da alcune scene di violenza veramente disturbanti, e l’erotico “Tecnica di un amore”; in entrambi i film fa bella mostra delle sue grazie la nordica Janet Agren.

“Prigione di donne” (1974) è uno dei primi esempi di women-in-prison movie fatto in Italia: come al solito, per ciò che riguarda la regia di Rondi, è più curato della media del genere (in questo caso una media bassissima) ma anche più pretenzioso e noioso…

Il 1976 è l’anno in cui gira i suoi ultimi due film per il cinema: “Velluto nero”, sorta di sequel apocrifo della apocrifa serie di “Emanuelle Nera”, con Laura Gemser (e qui si vola veramente basso) e il morboso “I prosseneti”.

Come attore si fa notare ne “Le ore dell'amore” (1963), di Luciano Salce.

Interessante anche un suo lavoro televisivo, “La vocazione di Suor Teresa” (1982), che ha come argomento la giovinezza di Madre Teresa di Calcutta, un ritratto spoglio di un’adolescente esaltata, senza alcuna concessione retorica o agiografica.

Rondi è stato insegnante presso il Centro Sperimentale di Cinematografia ed anche autore drammatico: tra i suoi testi "L'assedio", rappresentato ad Assisi nel 1959 con la regia di Orazio Costa e l'interpretazione di Enrico Maria Salerno e "Il capitano d'industria", rappresentato dalla compagnia "Attori Associati" diretta da Giancarlo Sbragia ed Enrico Maria Salerno.

Importanti anche i suoi scritti critici, su tutti “Il neorealismo italiano” (1956), e “Il cinema di Fellini” (1965), e, in un altro campo a lui assai congeniale, quello della musicologia, i precoci scritti su Bartók (1948) e sulla musica contemporanea (1952).

L’eccentrico regista e intellettuale ci lascia il 7 novembre 1989, a Roma.

Non è roba per tutti, la sua, ma vi invitiamo a riscoprirlo: sicuramente, la sua bizzarra filmografia riuscirà ad intrigarvi (se riuscite a superare lo scoglio della lentezza senza farvi vincere dal sonno…) e vi mostrerà un modo di fare film che ora sarebbe impensabile.

Nel bene o nel male…

Onore a Brunello Rondi!

“Oh, cara... sei noiosa... e che vocina querula hai: porti jella, con quella voce: tu non parli: canti, come una civetta”

Giulia/Anna Proclemer – Gli Amanti

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