Un Paladino del Re? Un Cavaliere della Tavola Rotonda? Un Avenger?
Macché, cari amici dei Mutzhi Mambo, oggi festeggiamo un eroe assai più grande, un vero alfiere del rock’n’roll!
Stiamo parlando del fondamentale ALEX CHILTON, il più grande "perdente" della storia del rock!
Quella di Alex Chilton è davvero una vita degna di un film: a soli sedici anni dominava le classifiche, a ventisei spazzava i pavimenti.
La sua prima band sfornava singoli di successo che hanno arricchito i discografici senza che lui ci abbia guadagnato un soldo; quella successiva sfornava album di culto che (essendo di culto) rimanevano invenduti; poi è la volta dell’abbrutimento e dell’oblio, quando ha passato un decennio ad arrabattarsi con i lavori più umili, pubblicando dischi deliranti, sgangherati e facendo produzioni coraggiose.
È stato riscoperto un attimo prima di morire, a soli 59 anni, omaggiato tardivamente dai tanti, troppi gruppi di successo che alla sua opera si sono ispirati.
Strano che una storia così non sia stata ripresa da Hollywood: ma si sa, ora c’è spazio solo per le “Regine”…
Per un ragazzo cresciuto a Memphis e nei dintorni, non c'era nulla di “meridionale” in Alex Chilton.
Benché fosse pienamente consapevole delle sue origini, soprattutto in sintonia con quegli aspetti del Tennessee più folli e marginali, il Sud di Chilton aveva più a che fare con il raffinato intellettualismo meridionale che con i classici cafoni redneck, che quando si pensa a quei luoghi, balzano subito in mente.
Alex Chilton ha vissuto per quattro decadi una carriera perlomeno triplice: le sue prime registrazioni come cantante di soul bianco con i Box Tops a fine anni ‘60, gli inclassificabili album di power pop influenzati da Beatles e Kinks che ha fatto con Big Star fino alla metà degli anni '70 (e dopo che il gruppo si è riformato con una nuova formazione nel 1993), e una serie di album solisti seminali ma caotici che ha registrato a partire dalla fine degli anni '70.
Per alcuni, era un classico sforna-hits degli anni '60, per altri, era un geniale musicista pop e compositore innamorato delle sonorità british, per altri, un ottimo arrangiatore ma un mediocre autore, per altri ancora, infine, un artista “looser” e disperato che ha trascorso diversi anni attaccato alla bottiglia, consegnando alla storia dischi e spettacoli fra i più “anarchici” di sempre, mentre abbandonava ogni pretesa di celebrità; comunque si veda Alex Chilton è stato un eccentrico iconoclasta la cui influenza è stata praticamente incalcolabile per tutta la scena indipendente a venire.
E si parla di praticamente tutto lo spettro denominato “indie” (termine che personalmente ci sta sui coglioni), dal garage malato al cantautorato sbieco, dallo shitgaze al britpop.
Perché se esiste un musicista che ha compreso profondamente la natura del rock'n'roll, questi è proprio Alex Chilton!
Inutile sottolineare che per noi, il suo periodo di “sbandamento” rimane il più succulento e non solo per i suoi primi dischi solisti, così dannatamente marci, ma anche perché in quel periodo ha prodotto i primi lavori dei Cramps e ha suonato con quel personaggione di Tav Falco e i suoi Panther Burns.
Per noi già questo gli avrebbe garantito un posto d’onore nel nostro cuore...
Alex nasce il 28 dicembre del 1950, ultimo di quattro figli di Sidney e Mary.
I Chilton sono una famiglia di antico lignaggio del Sud degli Usa e il padre è un musicista jazz dilettante mentre la madre una stravagante mecenate di artisti improbabili.
Inizia a suonare la musica nelle band locali delle scuole superiori, alternando il basso e la chitarra ritmica con la sua vociona ruvida, fino a raggiungere lo status semi-professionale con un gruppo chiamato DeVilles.
Dopo aver trovato un management con due volponi di Memphis come Chips Moman e Dan Penn, Chilton e il gruppo, ribattezzato Box Tops (praticamente una boy band costruita a tavolino ante litteram), registrano "The Letter", un singolo scritto da Wayne Carson Thompson, che suona abbastanza bianco per finire al numero uno nelle classifiche pop e abbastanza nero da essere trasmesso anche da stazioni R&B.
Chilton ha solo 16 anni, ma ha già un’idea chiara su come gestire le voci nei pezzi soul e pop.
Col vocal-coaching di Dan Penn a tirare le fila, i successi continuano ad arrivare, con "Cry Like a Baby", "Soul Deep" e "Sweet Cream Ladies" e i Box Tops diventano stelle alla radio, ma saranno i tour che apriranno gli occhi a Chilton su cosa volesse veramente dalla musica.
E ciò che vuole è senza dubbio più libertà artistica di quanto non avesse come leader dei Box Tops.
Inoltre l'improvviso successo lascerà un segno indelebile sulla psiche del giovane che scopre sesso, alcol e droghe, tre compagni di strada che lo accompagneranno a lungo.
A vent'anni lascia il gruppo, dopo un ultimo album, “Dimensions” (1969), caratterizzato dalle prime composizioni originali di Chilton, prima di tutto perché, a causa del contratto capestro, di tutti i milioni guadagnati coi Box Tops, lui e i suoi compagni non hanno visto che gli spiccioli, e poi perché si accorge che, nel frattempo, fuori dal piccolo mondo antico del Sud, il rock si è evoluto ed è diventato qualcosa di nuovo e diverso dalla pop-soul all’acqua di rose che aveva fatto sino ad allora .
Alex è solo un ventenne ma già un veterano della musica, reso cinico e scafato dalle assurde regole a cui è stato assoggettato dall'industria discografica.
Tra il 1971 e il 1974 fa parte di una band chiamata Big Star, con la quale mescola con precisione millimetrica Beatles, Rolling Stones, Byrds e Beach Boys, con spruzzate di proto-punk, inventando praticamente il power pop.
Oggi i Big Star sono la Storia, ma all'epoca nessuno se li fila.
La band nasce dall'incontro tra Alex e il coetaneo Chris Bell, rampollo di una ricca famiglia di ristoratori e raffinato songwriter con l'ossessione per la musica inglese.
I due si sentono i nuovi Lennon/McCartney e realizzano un disco fondamentale per il rock a venire, intitolandolo con ironia “#1 Record” (gioco di parole fra “Primo Disco” e “Disco numero uno in classifica”).
Ma mai il nome di una band e un titolo di disco saranno meno profetici: in realtà l’album rimane impilato nei magazzini del distributore e i Big Star saranno tutto meno che “grandi stelle”.
Colpa dei produttori, certo, abituati a gestire materiale soul e blues e che non sanno come “vendere” questo lavoro; ma colpa anche del sound, assolutamente nuovo ma che guarda ad un passato ancora troppo recente e che quindi risulta semplicemente demodé.
Ora il pubblico vuole altro, vuole il glam, l’hard rock, il progressive…
Bell abbandona subito il gruppo e comincia ad abusare di alcol, per poi morire dimenticato nel 1978 in un incidente stradale.
Solo nel 1992 uscirà postuma una raccolta dei pezzi che era riuscito a registrare nel frattempo e che dimostra quanto fosse valido come songwriter.
Chilton, ormai rimasto leader indiscusso, registrerà altri due album con i Big Star, “Radio City” e Third”, che avranno destini commerciali ancora più tragici dell'esordio.
“Radio City” esce nel 1974 ed è più “arrabbiato” e pessimista del precedente, mentre “Third”, molto più “hard” e lugubre e parecchio frammentario, viene registrato nel 1975 ma uscirà solo tre anni dopo; quest’ultimo si può considerare a tutti gli effetti il primo album solista di Chilton.
Nel 1975 il nostro ha ventiquattro anni e già nessuno si ricorda più di lui.
Nel 1977 arriva, squattrinato, a New York e partecipa suo malgrado all'esplosione del fenomeno punk con sgangherati concerti di revival rockabilly fuori contesto in locali come il CBGB's e il Max's Kansas City.
Lui è pur sempre “quello che cantava The Letter”.
Il pubblico punk lo segue con un misto di reverenza e scherno.
In realtà a lui tutta quella scena pre-new wave, gente alla moda ma plasticosa come i Talking Heads e i Television, sta un po’sulle palle e gli preferisce personaggi più marci e borderline come i Cramps.
A 26 anni è un'ex stella del rock mentre il rock sta per essere preso a calci dalle nuove leve.
A New York non possiede niente, neppure una chitarra.
Si fa ospitare da chiunque gli capiti a tiro, è una specie di senzatetto dall'aria elegante e dall'indiscutibile fascino da aristocratico del sud.
L'alcol, la droga e la disillusione hanno fatto di lui la tipica stella decaduta, piena di talento ormai al macero: se ne torna a Memphis e si mette a lavorare come addetto alle pulizie di un bar.
Abbandona anche la sua proverbiale precisione nel registrare in studio e nel suonare dal vivo e diventa fautore di uno spontaneismo che rasenta l'autosabotaggio, un’ “estetica del brutto” che si pone, programmaticamente o meno, come l’esatto contrario della raffinatezza dei suoi Big Star.
Lo dimostrano i brani sbrindellati di “Bach’s Bottom” (1981, ma registrato nel 1977), rock’n’roll deragliante al limite della stonatura e della dissonanza, e di “Like Flies On Sherbert” (1979), in cui non c’è nulla per cui si possano richiamare concetti quali “melodia”, “composizione”, “struttura armonica“, missaggio adeguato”, “arrangiamento”.
Persino in epoca new wave, e con la no wave alle porte, quelle canzoni sembreranno un vero cazzotto nell’occhio.
Altro che punk, in questi due album c’è già tutto il garage/roots e il lo-fi degli anni 90!
Chilton deliberatamente evita le sovrastrutture e predilige il più puro spontaneismo r’n’r, senza negarsi qualche esperimento preso a prestito da ambiti musicali piuttosto distanti (i Kraftwerk, i Roxy Music…).
In questo contesto si inquadra il miracoloso lavoro di produzione fatto con i Cramps sui loro primi singoli e sull’album d’esordio.
La band di Lux Interior e Poison Ivy non avrà mai più suoni cosi marci e malati.
Pare che per ottenere il sound che vuole, Alex arrivi a buttare via con nonchalance diverse registrazioni già praticamente complete e a minacciare Lux Interior con una pistola per fargli ricantare un pezzo...
Ma anche la collaborazione che in questo periodo Chilton avrà con Tav Falco, altro mattoide revivalista per cui suonerà la chitarra nel suo gruppo, i Panther Burns, e la produzione di alcune prime session per Peter Holsapple, apparse nel 2018 nell'edizione d’archivio chiamata “The Death of Rock”, sono perfettamente un linea con questa fase di radicale ricerca delle roots rock’n’roll, senza fronzoli o esigenze commerciali.
Con i quattro soldi racimolati con la vendita della casa del padre, il nostro si trasferisce a New Orleans, dove trova lavoro come barista in Bourbon Street.
Pubblica pure un disco, il moscissimo “High Priest” (1987), in cui però c'è una versione di “Volare” di Modugno che vale l’ascolto.
Gli anni ottanta di Alex Chilton sono un tunnel buio ma sono anche gli anni in cui molla la droga e si calma col bere, e soprattutto in cui i tre dischi incisi dai Big Star cominciano ad ammantarsi di leggenda per un'intera generazione di musicisti giovani che daranno poi vita a gruppi come R.E.M., Wilco, Replacement.
Chilton continua a rifiutarsi di parlare di quel periodo della sua vita, lo rinnega e lo sminuisce ogni volta che viene interpellato sull'argomento ma, il 25 aprile 1993, forse bisognoso di soldi, forse finalmente rappacificato con il passato, accetta di riunire la band per un concerto all'università del Missouri.
Dichiara spavaldo che si tratta di un concerto una tantum e che non avrà seguito e invece il successo di critica e l'affetto dimostrato dai fan sparsi in tutto il mondo lo convincono a ripetere l'esperienza di lì a poco.
La vita randagia termina quindi intorno al 1993.
Da quell'anno Chilton smetterà di essere l'eterno enfant prodige scostante e dispettoso e assurgerà a una dimensione di Grande Vecchio del rock.
Dimentichiamoci quindi dell’Alex scapestrato e anarcoide (che però ci piaceva tanto!).
Nei ’90 pubblica degli album da solista: il jazzato “Clichés” (1994), l’ottimo “A Man Called Destruction” (1995), in cui fa capolino persino una cover de "Il Ribelle" di Celentano, e l’elegante “Loose Shoes and Tight Pussy” (1999); una fantastica collaborazione con Ben Vaughn e Alan Vega, “Cubist Blues” (1997), una breve concessione alle sue passate stravaganze; e addirittura partecipa alla riunione dei Box Top, con qualche concerto e un disco, “Tear Off!”, nei quali Alex e soci si cimentano esclusivamente con cover r’n’r e rockabilly.
Fa anche in tempo a sopravvivere al disastro dell'uragano Katrina: come Fats Domino lo danno inizialmente per disperso ma in realtà era stato parecchi giorni confinato sul tetto di casa.
Un nuovo album di studio dei Big Star, “In Space”, appare nel 2005, sebbene includa solo Jody Stephens della formazione originale.
La critica non sarà benevola ma l’album non è male, anche se sono passati trent’anni dai livelli di trent’anni prima…
La band suona anche in diversi concerti in Inghilterra e in America mentre nel 2009, la Rhino pubblica la loro antologia definitiva, “Keep a Eye on the Sky”.
Nel marzo 2010 i Big Star sono una delle attrazione principali del festival “South by Southwest” a Austin, Texas.
Il giorno prima del concerto, il 18, Alex però si sente male in casa a New Orleans, fa fatica a respirare e ha forti dolori al petto.
La moglie Laura lo carica in auto e si precipita verso il primo ospedale.
Le sue ultime parole sono banali: “Passa col rosso!”, riferito al semaforo.
Muore prima di poter essere soccorso dai medici.
Con lui se ne va un grande esempio di cosa il rock’n’roll ti può dare e di cosa il rock’n’roll ti può togliere…
E cosa invece tu puoi dare al rock’n’roll!
Per sempre!
Onore ad Alex Chilton!
“Driving in my big black car
Nothing can go wrong
I'm going and I don't know how far
So, so long.
Maybe I'll sleep in a Holiday Inn
Nothing can hurt me
Nothing can touch me
Why should I care?
Driving's a gas
It ain't gonna last.
Sunny day, highway
If it rains it's all the same.
I can't feel a thing
I can't feel a thing
I've got a big black car.”
Big Star – Big Black Car